Introduzione generale
Da circa un trentennio, ovvero dal crollo del muro di Berlino e via di seguito dall’implosione dell’Unione Sovietica e del blocco politico-economico da essa sostenuto, il mondo ha assistito all’imperversare della globalizzazione. Il sistema della globalizzazione in origine avrebbe dovuto favorire una maggiore cooperazione internazionale in ambito economico-commerciale e contemporaneamente culturale e persino nella libera circolazione delle persone. Per una serie di motivi di natura politica ed economica che qui non stiamo ad elencare e trattare, la globalizzazione si è poi successivamente caratterizzata verso una polarizzazione tra diversi blocchi di interesse geopolitico: si pensi ad esempio al cosiddetto blocco occidentale da una parte (Nord America-UE- Regno Unito e paesi del Commonwealth, Giappone, Corea del Sud) e paesi del Brics dall’altra (Brasile-Russia-India-Cina-Sudafrica) e a questi vanno poi aggiunti tutti i paesi ad economia emergente (monarchie sunnite del Golfo persico e via dicendo). Restringendo il nostro campo di indagine al solo Occidente possiamo constatare che in ambito prettamente culturale la nuova organizzazione politica ed economica ha portato ad una sempre più invadente egemonia della lingua inglese. E’ un risultato, se vogliamo, naturale del predominio culturale di matrice anglo-sassone originatosi a partire dal secolo XIX con l’imperialismo anglo-britannico. Tutto ciò ha determinato una evidente sofferenza di tutte le lingue del dominio occidentale sia quelle ufficiali di ogni singolo stato sia delle cosiddette lesser used languages (Lul) o lingue regionali/lingue minoritarie. Questo processo già in fase di avviamento nella seconda metà del XX secolo si è poi accentuato negli ultimi trent’anni appunto a causa della globalizzazione stessa. Pertanto si stima che le varie lingue nel mondo siano circa seimila e che circa trecento di queste siano parlate da meno di un milione di persone. Di queste ultime, molte, non vedranno ovviamente la fine del XXI secolo. E’ triste doverlo dire ma persino la lingua sarda è tra le lingue a rischio estinzione, non avendo alle spalle forti istituzioni che provvedano non soltanto a tutelarla ma persino a valorizzarla, nonostante le leggi approvate negli anni ’90 del secolo appena trascorso. Anche l’italiano oggi è a rischio ma, a differenza del sardo, l’italiano può contare sia sull’autorevolezza scientifica dell’Accademia della Crusca sia sulle istituzioni statali italiane che elargiscono cospicui finanziamenti per il suo utilizzo e la sua valorizzazione, ovviamente il lessico inglese ha iniziato a erodere anche la lingua italiana, è un dato di fatto non più opinabile ma evidente a tutti. Nel frattempo la lingua inglese imperversa nel cinema, nella televisione e persino nelle scuole di ogni ordine e grado. Vorrei concludere questa breve introduzione con una frase rilasciata dal docente di linguistica del MIT Ken Hale: «Perdere una lingua è come sganciare una bomba atomica sul Louvre». Lascio dunque ai lettori ogni riflessione sulla frase di Hale.
Lingua sarda e problemi generali.
A proposito di lingue regionali e minoritarie, possiamo ormai affermare con assoluta certezza che il sardo rappresenta all’interno dei confini dello Stato italiano uno dei patrimoni linguistici più importanti e cospicui per numero di parlanti. E’ la scienza linguistica che ci informa ormai, da ben cinquecento anni, che il sardo attuale o contemporaneo è una lingua neolatina o romanza, deriva ovviamente dal latino che i conquistatori romani iniziarono a introdurre a più riprese (sia in epoca repubblicana che in epoca imperiale) a partire dal loro primo ingresso in Sardegna nel 238 a.C. Il sardo derivato dal latino, si è strutturato nel territorio e nel tempo in due macrovarietà della stessa lingua: una macrovarietà meridionale (altrimenti nota come campidanese) e una macrovarietà centro-settentrionale (altrimenti nota come logudorese/nuorese). E’ doveroso dire che nelle aree di confine tra le due macrovarietà (anfizona) sussistono subvarietà di confine tra le due poc’anzi citate, la quali possono avere caratteristiche di entrambe. Da una ricerca sociolinguistica condotta nel 2007 ci risulta che il 68% dei sardi parla e si esprime correntemente in una delle due forme di sardo, un dato senza dubbio positivo ma che contrasta con la triste percentuale dei bambini sardofoni L1 (o madrelingua) scesa vertiginosamente al 13% e che preoccupa tutti coloro che si occupano di lingua sarda e lingue minoritarie: il sardo è a grave rischio estinzione. A distanza di undici anni non sappiamo quale sia l’attuale percentuale di bambini sardofoni L1. Il rischio è che questa percentuale si sia ulteriormente abbassata in maniera preoccupante. Ciò significa che nonostante la costituzione italiana (art.6) sia stata recepita in una legislazione di tutela e valorizzazione, dapprima con la L.R. n°26/1997 e successivamente con la legge dello stato n° 482/1999, per quanto necessaria non è sufficiente alla salvezza del sardo.
L’oralità è ovviamente di primaria importanza: se non si parla in sardo la lingua scomparirà. Ma affinché l’oralità non scompaia è necessario l’introduzione obbligatoria del sardo nelle scuole di ogni ordine e grado, nella pubblica amministrazione, nei tribunali, nella Chiesa e nei media. Per fare in modo che ciò sia possibile occorre una potente rivoluzione culturale che abbia come punta di diamante una volontà politica che imponga l’utilizzo obbligatorio della lingua sarda in ogni ambito. Ma è altrettanto ovvio che se si vuol fare entrare il sardo nelle scuole, nelle istituzioni è necessario un minimo di normalizzazione o standardizzazione della lingua stessa. Innanzi tutto a iniziare dall’ortografia cioè dall’utilizzo di un alfabeto unico o uguale per tutti. Non ha più alcuna utilità scrivere ciascuno con un proprio alfabeto. Le ultime proposte al riguardo fanno comunque ben sperare verso una convergenza ortografica. Certo è anche auspicabile uno standard della lingua sarda per quanto attiene il lessico, la grammatica e la morfologia che però dovrà tenere conto assolutamente di tre fattori di base: primo fra tutti i parlanti; secondo l’evoluzione storica del sardo nella sua forma bi-polare; terzo i codici letterari scritti ed orali utilizzati fino a questo momento. Sappiamo ad esempio che la letteratura orale in lingua sarda ha prodotto due codici letterari ormai abbondantemente normalizzati dai poeti estemporanei del sud Sardegna e del centro-nord che sono confluite nelle ormai note tradizioni letterarie campidanese a sud e logudorese/nuorese al centro-nord, le quali si configurano già per la loro funzione di codici sovra-dialettali naturali che possiamo ascoltare d’estate nelle piazze dei paesi dell’Isola con le gare poetiche. Questo lavoro di sintesi affrontato dai cantadoris/-es di tutta l’isola da oltre trecento anni è stato di fondamentale importanza.
Dalla tutela alla valorizzazione.
A partire dagli anni ‘60 del secolo appena trascorso, da quando il politico neosardista Antoni Simon Mossa e l’antropologo Michelangelo Pira hanno denunciato la subalternità della cultura sarda nei confronti di quella italiana e il grave rischio di estinzione del sardo, si è formato negli anni un grande movimento linguistico che dopo un primo tentativo negli anni ‘70 riuscì nel 1997 a fare approvare dal Consiglio regionale della Sardegna un primo strumento legislativo di tutela e valorizzazione (L.R. n°26/1997), il quale ha spinto persino Roma a fare altrettanto nel 1999 (L.n° 482/1999). Chiusa questa prima fase della tutela si è aperta, a iniziare dal nuovo secolo, la fase di valorizzazione accompagnata da quella della standardizzazione. Nonostante la formazione di ben due commissioni di esperti (2001 e 2005) i modelli sperimentali di standard della lingua sarda prodotti sono stati categoricamente rifiutati da un’ampia fetta della popolazione sardofona: nel primo tentativo solo dai campidanesi o meridionali (rifiuto della LSU) mentre nel secondo tentativo anche da ampie fasce di abitanti del centro e nord Sardegna oltre che del meridione (barbaricini, logudoresi e campidanesi). A monte c’era una richiesta precisa e perentoria dell’esecutivo della R.A.S. (Regione Autonoma della Sardegna): uno standard monocentrico o che contemplasse una macro-varietà soltanto (naturale oppure di “mediazione”). E la scelta delle commissioni poteva ricadere o su una macro-varietà naturale o su un idioma di mediazione che però si sarebbe configurato fin dall’inizio come una sorta di esperanto o parlata artificiale.
In entrambi i tentativi vi sono degli errori di base: nel primo caso, cioè della stesura della norma LSU (Limba Sarda Unificada), la prima commissione di esperti ha optato, a mio parere ideologicamente, per la macro-varietà logudorese/nuorese ritenuta più “pura”; nel secondo caso, la LSC (Limba Sarda Comuna), per un’ idioma che sarebbe dovuto essere, nelle intenzioni, di mediazione, ma che alla fine è risultato essere un codice linguistico artificiale sbilanciato verso il logudorese/nuorese (anche qui vi si scorge una certa ideologia di fondo). Ridicoli e scarsamente scientifici i tentativi di ascrivere la LSC alla parlata sarda di Sorradile prima e di Neoneli in un secondo momento. Non è necessario avere una laurea per capire il misero fallimento di entrambe le norme sperimentali. Tutto si sarebbe potuto risolvere se i politici sardi della RAS, all’epoca mal consigliati, avessero ritirato la norma sperimentale LSC adottata dall’esecutivo regionale nel 2006. E nonostante il fallimento, si è continuato per ben dodici lunghi anni a imporre la LSC, che doveva essere solo ed esclusivamente in uscita dalla Regione per i documenti tradotti dall’italiano, persino nei comuni e nelle province (es.: prov. di Oristano, Ogliastra, Nuoro e Sassari) o in certe scuole soprattutto del sud Sardegna. Teoricamente la LSC non sarebbe potuta entrare né negli uffici della lingua sarda dei comuni e delle province sarde, né nelle aule delle scuole di ogni ordine e grado della Sardegna. Il motivo sta nel fatto che: la delibera della Giunta regionale cioè dell’esecutivo regionale NON può imporre la LSC a nessuno (è in pratica «carta straccia»). Inoltre la LSC essendo un idioma non parlato ma artificiale viola di fatto tutte le convenzioni internazionali riguardanti la tutela della madrelingua per ciascun cittadino sardo (sia esso un bambino in età pre-scolare che scolare, sia un adulto).
Sull’ideologia dei sostenitori della LSC: loro negazionismo e tentazioni sostituzioniste.
In questi ultimi dodici anni si è consumata una “guerra” ideologico-culturale attorno allo standard sperimentale LSC. La normalizzazione di una lingua è giusta e necessaria, se vogliamo anche doverosa, ma non basta per salvare una lingua dall’estinzione e gli eccessi della normalizzazione possono persino portare a derive estremiste che solo Orwell aveva prefigurato nel suo famoso romanzo 1984 a proposito della cosiddetta neolingua. E quel che si rischia anche in Sardegna se, a medio e lungo termine, venisse ancora consentita la sperimentazione della LSC.
Ma vediamo ora più da vicino l’identikit del tipico sostenitore e simpatizzante della Limba Sarda Comuna. Il sostenitore della LSC è convintissimo di essere nel giusto, ritiene di non avere dubbi, al punto da insultare chi ha un’opinione o una tesi diversa dalla sua in fatto di lingua sarda, rifiuta ogni forma di dialogo, la LSC è un dogma che non deve essere modificato, di fatto la LSC è trasformata in una sorta di feticcio. E’ accecato dall’ossessione dello standard (non arriva a capire che lo standard da solo non salva una lingua). Hanno persino la pretesa di sostenere che la metodologia che ha prodotto la LSC sia l’unica scientifica. A tal proposito sarebbe persino opportuno analizzare la loro psicologia. Il loro obiettivo finale è il «nuovo uomo sardo». Che sia nuovo in senso biologico e in senso linguistico-culturale. Non accettano la comunità nazionale sarda così come si presenta oggi, cioè con tutte le sue diversità e peculiarità, cioè come prodotto della storia (con i suoi drammi e i suoi momenti di gloria). La loro ideologia si basa innanzi tutto su una falsa biologia: ritengono che i sardi non siano tutti uguali, chi infatti ha tendenze nazistoidi insiste sulla necessità di purificare il popolo sardo attraverso un processo di pulizia del sangue che porti tutti ad essere come i sardi delle montagne centrali, concetto basato sulla presunta purezza dei sardi della Barbagia (quante volte abbiamo sentito i soliti luoghi comuni secondo i quali Cagliari non sarebbe città sarda o che gli abitanti del Sulcis non sarebbero sardi veri e propri); altri invece simpatizzanti di un certo multiculturalismo ridicolo insistono sulla necessità di creare un melting-pot tra sardi e nuovi arrivati dall’Africa e dall’Asia. Aggiungerei persino una falsa scienza linguistica che si è spinta ad attaccare direttamente in maniera violenta la linguistica accademica (forte di ben cinquecento anni di storia). Accusano i linguisti accademici di dividere il sardo in due “lingue”, di essersi inventati il campidanese ed il logudorese/nuorese. In ciò sono assai paradossali in quanto, per giustificare uno standard monocentrico, artificiale e sbilanciato sulla varietà logudorese come la LSC appunto, sono giunti ad affermare che in Sardegna vige una babele perché “abbiamo tanti dialetti locali quanti sono i paesi dell’Isola” cioè “377 dialetti uno per ogni villaggio e città” (già questa affermazione qualifica la loro paradigmatica ignoranza in materia di linguistica sarda). Negazionisti, dunque, questo è il termine esatto per qualificare i sostenitori della LSC, perché negano che la lingua sarda, per il solo fatto stesso di essere lingua, sia di fatto già unita, negano che il sistema linguistico sardo sia bi-polare, negano che esista un’affermata tradizione linguistica letteraria orale e scritta da un millennio in due macro-varietà che corrispondono al modo di parlare rispettivamente dei sardi del centro-nord e del sud dell’Isola. E poi diciamocela tutta: non esistono lingue monocentriche, tutte le lingue del mondo hanno macrovarietà e sub varietà, il negarlo sarebbe un’idiozia. Negano che i sardi siano una nazione, difatti al posto del termine nazione usano il termine popolo che in realtà ha un significato diverso da quello di nazione, ragion per cui essi vorrebbero creare un «nuovo popolo sardo» ex novo (come se i sardi non esistessero già e bisognasse inventarli). Né gli uni né gli altri terrebbero in alcun conto le vicissitudini storiche degli ultimi mille anni di storia sarda, dei quali gli ultimi seicento circa sotto dominazioni straniere. Non vogliono in sostanza accettare la realtà per come essa si presenta e soprattutto la storia.
Dott. Andreas Lichtenberg