“La nostra terra è questo disperato mucchio
di monti di basalto e di nuraghi neri,
fioriti come fiori di lava e di tormento”.
Eccola la potenza visionaria di Francesco Masala, l’asprezza dolorosa della sua scrittura, i versi che restituiscono il seme più antico di una Sardegna disincantata, disillusa, attraversata dalle incursioni ferali della storia e dalla tenue speranza dei vinti. Un’opera dove poesia e politica si fondono insieme in un’ibridazione dialettica vitale e vigorosa, testimoniando le contraddizioni di una terra radicalmente sconvolta (da guerre, dall’emigrazione, dalla cieca industrializzazione e dai dominatori di turno), un’Isola ribaltata nel suo più profondo senso identitario e antropologico. Una poesia, quella di Masala, che dà “voce ai vinti” e “smuove l’animo sonnacchioso di molti sardi”, a tratti scomoda e provocatrice, a tratti audace e combattente.
Scrisse di lui, nel 1989, Aquilino Cannas: “Franziscu Masala est unu de cussus ominis chi est arrenesciu a portai sa perdixedda sua in sa Domu de su Tempus”. Un’originale attestazione che celebra tutto il valore iconico di Masala, destinandogli una collocazione spazio/tempo che è quella riservata ai grandi classici.
Poeta, scrittore, saggista, Masala (noto anche come Ciccittu) nasce a Nughedu San Nicolò, il 17 settembre del 1916. Un’origine che lui stesso racconta così: “Sono nato in un villaggio di contadini e di pastori, fra Goceano e Logudoro, nella Sardegna settentrionale e, durante la mia infanzia, ho sentito parlare e ho parlato solo in lingua sarda: in prima elementare, il maestro, un uomo severo sempre vestito di nero, ci proibì, a me e ai miei coetanei, di parlare nell’unica lingua che conoscevamo e ci obbligò a parlare in lingua italiana, la lingua della Patria, ci disse. Fu così che, da vivaci e intelligenti che eravamo, diventammo, tutti, tonti e tristi”. Ecco, in queste parole – tratte da Il Parroco di Arasolè – Francesco Masala riassume in modo sintetico ed emblematico uno degli aspetti fondamentali della sua infanzia, i disagi della Scuola-Stato, concentrando la sua critica su un problema esiziale per la sopravvivenza della lingua sarda: il rapporto irrisolto tra Stato italiano e nazione sarda. Tutta la sua vita, infatti, sarà animata da questo dibattito nodale.
A Sassari Masala frequenta il liceo, poi si sposta a Roma, dove si laurea con il professore Natalino Sapegno, con una tesi sul teatro di Pirandello. La Seconda guerra mondiale incombe: Masala combatte prima sul fronte iugoslavo e successivamente sul fronte russo dove viene ferito e decorato al valore militare. Dopo il congedo e il ritorno in Sardegna si dedicò così all’insegnamento. Nel 1947 è professore di materie letterarie in una scuola media di Sassari. In seguito, si trasferì a Cagliari dove insegnò sempre in una scuola media, per poi diventare docente di ruolo nell’Istituto Magistrale Eleonora D’Arborea. Nel capoluogo sardo trascorrerà i restanti anni della sua vita, spegnendosi il 23 gennaio del 2007.
Come professore di letteratura e storia fu un oppositore della scuola tradizionale, ma non tanto sul piano pedagogico, quanto invece sul piano politico. Per Masala occorreva promuovere e applicare nelle scuole il concetto di democrazia, ovvero rompere il consolidato rapporto verticale fra studente e docente a favore di una relazione paritaria, fatta di dialettica e di un sistema dove l’arte dell’insegnare non significasse trasmissione di dati, bensì educazione all’impegno e al senso di responsabilità sociale.
Parallelamente agli anni della scuola collabora, come giornalista pubblicista, entrando in contatto diversi giornali e riviste regionali, fra cui i quotidiani L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna, muovendosi su più ambiti, quello della critica letteraria, quello dell’arte e quello del teatro, ma senza mai rinunciare ad etichettare con una certa ironica diffidenza la classe dei giornalisti, così definiti pisciatinteris (pisciainchiostro).
Il suo impegno identitario emerge soprattutto in progetti editoriali di caratterizzazione sardista: scrive infatti per il periodico bilingue Nazione Sarda, nato nel 1977, al quale collaborarono intellettuali come l’archeologo Giovanni Lilliu, gli scrittori Antonello Satta e Eliseo Spiga, l’economista e federalista europeo Giuseppe Usai, il poeta e drammaturgo Leo-nardo Sole, la pedagogista Elisa Nivola, lo scultore Pinuccio Sciola. Un Pantheon che riuniva tutto il pensiero identitario e sardista.
Nazione Sarda – insieme ad altre riviste – si fa promotrice in quegli anni del Comitadu pro sa limba (Comitato per la lingua sarda) elaborando una proposta di legge di iniziativa popolare – la prima nella storia della Sardegna – per introdurre nell’Isola il Bilinguismo perfetto, in base all’articolo 6 della Costituzione. La proposta di legge, sottoscritta con firme autenticate da 13.650 elettori sardi verrà presentata il 17 giugno del 1978 al Presidente del Consiglio regionale proprio da Francesco Masala.
Bilinguismo perfetto significava più specificatamente l’introduzione della lingua sarda nelle scuole di ogni ordine e grado e nei curricula scolastici. Una rivoluzione culturale, oltreché didattica e pedagogica, a cui Masala si dedica in prima linea, come insegnante, come scrittore e come cittadino.
Ma è dalla scrittura che arrivano i più importanti riconosci-menti. Nel 1951 Masala vince il Premio Grazia Deledda e nel 1956 il Premio Chianciano. Le sue opere vengono tradotte in numerose lingue e la sua fama si lega in eguale misura sia ai suoi versi che ai suoi scritti in prosa. Il primo successo germoglia dalla poesia, non tanto per la prima raccolta del 1954 “Lamento e grido per la terra di Sardegna”, quanto per la seconda, “Pane nero”, che verrà tradotta in russo, iugoslavo e spagnolo. E così pure “Il vento”, una silloge pubblicata nel 1961.
È del 1968, però, il suo primo romanzo “Quelli dalle labbra bianche”, edito Feltrinelli, l’opera cardinale della sterminata produzione letteraria di Masala: un libro che aprirà la strada della notorietà sul piano nazionale e che verrà tradotto anche in ungherese e in francese (da Claude Schmitt, per la casa editrice Zulma, con il titolo di Ceux d’Arasolè). Il romanzo, che mette al centro le storie e i dolori del villaggio di Arasolè, ci accompagna nella tragedia della Seconda guerra mondiale sul fronte russo, dando vita ad un capitolo essenziale di tutta la letteratura sarda, accostabile per molti aspetti ad un altro capolavoro, “Un anno sull’altipiano” di Emilio Lussu, scrittore a cui Masala sarà legato per amicizia e affinità politica.
È in quest’opera che si evidenzia fulgidamente il messaggio-guida dello scrittore. Un canovaccio tematico che tesse la trama delle sue future opere e che mette in rilievo alcuni tratti poi ricorrenti nella successiva produzione di Masala. Eccone alcuni, tra i più significativi: anzitutto, la convinzione che la vera storia sia quella fatta dai vinti, ed essa, al contrario della storia ufficiale non ha archivi né trattati; il dovere della cultura militante di usare il modo di esprimersi dei vinti, per dar loro quello spazio sottrattogli dalla storia ufficiale; la consapevolezza che le dominazioni e i linguaggi provenienti dall’esterno abbiano soffocato la possibilità per i sardi di far emergere una propria vera storia; infine, l’affermazione della storia e della cultura dei sardi solo quando si arriverà a ridare dignità alla “lingua dei vinti”, e quando parte dei sardi (e parte anche della cultura sarda), invece di acquisire atteggiamenti e linguaggi della realtà dominante, saranno capace di ribellarsi.
Su queste orme tematiche si snoda il proseguo dell’attività di Masala.
Nei primi anni Settanta, il romanzo “Quelli dalle labbra bianche”, diventa un’opera per teatro grazie alla trasposizione curata da Giacomo Colli e poi realizzata dalla Cooperativa Teatro di Sardegna, con il titolo “Sos laribiancos”. Mentre nel 2001 il regista Piero Livi trasforma il romanzo in un film.
Sempre sul fronte della poesia teatrale, ritornando agli anni Settanta, nel 1974 Masala si presenta al pubblico con la raccolta delle poesie “Storie dei vinti”, mentre nel 1976 scrive – in collaborazione con Romano Ruiu e con il regista Gian Franco Mazzoni – il dramma popolare bilingue “Su Connotu” (Il conosciuto).
In sardo-italiano scrive anche due radiodrammi trasmessi dalla Rai nel 1979 e nel 1981, “Emilio Lussu, il capo tribù nuragico” e “Gramsci, ovvero l’uomo nel fosso”. Sempre nel 1981 pubblica “Poesias in duas limbas” (Poesie in due lingue) con traduzione in francese. Nel 1984 esce il saggio “Il riso sardonico”. Nel 1986, invece, è la volta del suo secondo romanzo, “Il Dio petrolio”, tradotto in francese con il titolo “Le curè de Sarrok”, e ambientato proprio a Sarroch (Cagliari), città simbolo dell’industria petrolchimica (de s’ozu de pedra: dell’olio di pietra) che, denuncia Masala, è fonte di avvelenamento e devastazione di alcuni fra gli angoli più suggestivi della Sardegna, sconvolgendo le popolazioni non solo a livello ambientale bensì anche antropologico.
Sempre nel 1986 pubblica il saggio “Storia dell’acqua”, mentre nel 1987 “La Storia del teatro sardo”.
Nel 1989 arriva anche il suo primo romanzo in lingua sarda, S’Istoria (Condaghe in limba sarda), nel quale Masala riprende e amplia nel tempo la vicenda di un paese simbolo della Sardegna, Biddafraigada (paese costruito). Un filone che prosegue nel 2000 con “Sa limba est s’istoria de su mundu” (La lingua è la storia del mondo) dove l’autore percorre la storia di un villaggio malefadadu (sfortunato) di contadini e pastori.
Chi ha conosciuto Masala, o ha letto semplicemente i suoi scritti, riconosce in lui un’onestà intellettuale e una coerenza irriducibili, tanto da poter essere definito “un intellettuale contro”, o addirittura antisistema.
Per le sue scelte in difesa della Sardegna, della sua lingua, della sua cultura, dell’economia tradizionale, ma anche per l’accusa martellante contro i padroni di turno, interni o “venuti dal mare”, e soprattutto per aver dato voce ai “vinti” con un linguaggio semplice e penetrante, alla portata di tutti, Masala è riuscito a diventare il punto di riferimento, un mito, per quella vasta e composita area politica identitaria, cosiddetta del neo sardismo, testimoniando non soltanto la sua grandezza letteraria, ma un impegno civile tenace e prestigioso. Un’opera universale, la sua, che ha saputo unire il coraggio, il genio e un profondo senso dell’appartenenza.